martedì 27 maggio 2008

Enti locali generosi

Se nella pubblica amministrazione il merito resta ancora un sogno, ci si accontenti almeno della «virtuosità». Grazie a questa parolina magica sarà distribuito a circa 550 mila dipendenti pubblici un aumento fino all’1,5 per cento del monte salari. Naturalmente oltre a quello del 4,85 per cento, uguale per tutti, stabilito dall’ultimo contratto nazionale e che costerà alle casse dello Stato 887 milioni di euro. Unica condizione per avere l’aumentino supplementare è che l’amministrazione di appartenenza sia considerata «virtuosa». E come si valuta questa virtù? Non sulla base di una particolare produttività del lavoro, né sull’efficienza degli uffici, e neppure sulla qualità dei servizi resi ai cittadini. Semplicemente, si può essere considerati «virtuosi» se si rispetta un determinato tetto di spesa per il personale in rapporto alle entrate o alle uscite. Punto e basta.
Va subito precisato che non si tratta di una cosa nuova. Il principio era stato già introdotto con il precedente contratto degli enti locali, stipulato quando c’era il precedente governo di Silvio Berlusconi. Soltanto che ora i soldi destinati a quel regalino sono aumentati ancora, raggiungendo la ragguardevole somma di 175 milioni di euro. E regalino, se è vero quello che hanno scritto i giudici della Corte dei conti, è proprio il termine esatto. Perché, hanno rilevato i magistrati contabili, «dalla relazione tecnica dell’Aran risulta che l’83,2% degli enti locali raggiunge la condizione di virtuosità, mentre il 100% delle Regioni e delle città metropolitane raggiungono per intero il cosiddetto parametro di virtuosità per esse stabilito. Come appare evidente, questo parametro appare facilmente raggiungibile dalla quasi totalità degli enti».
Non che questo possa essere considerato stupefacente, in un Paese nel quale gli incentivi economici ai dipendenti pubblici vengono corrisposti prevalentemente sulla base di un criterio disarmante: la sola presenza sul luogo di lavoro. Ma il fatto che sia definito «virtuoso» l’ovvio rispetto di un tetto di spesa fissato per legge, e che il mancato rispetto di quel limite dia luogo non a una sanzione, ma soltanto a un mancato premio, dev’essere apparso tanto macroscopico al Tesoro da indurre il ragioniere generale dello Stato Mario Canzio a segnalare come «la condizione di virtuosità degli enti» fosse «ancorata a un unico e insufficiente parametro». Ma più di quello non ha potuto fare. Così al presidente della sezione della Corte dei conti che ha esaminato la faccenda, Rosario Elio Baldanza, non è rimasto, qualche settimana fa, che bocciare il contratto. Rilasciando una «certificazione non positiva». Con questa motivazione: «La corresponsione di rilevanti risorse aggiuntive, fino all’1,5% del monte salari, risulta correlata a parametri non indicativi di una effettiva virtuosità gestionale, in mancanza di una finalizzazione delle risorse stesse a miglioramenti di produttività individuale e dei servizi».
Ciliegina sulla torta: quando si è fatto il contratto, lo Stato non conosceva nemmeno il numero esatto dei dipendenti degli enti locali a cui si doveva pagare l’aumento. La Ragioneria generale aveva infatti una cifra, e l’Aran, l’agenzia governativa incaricata di negoziare materialmente il contratto con i sindacati (e al cui vertice paradosso vuole che siedano sindacalisti del calibro dell’ex segretario confederale della Uil Giancarlo Fontanelli, e personalità almeno molto vicine al sindacato come il direttore della pubblicazione della Cgil Quaderni di Rassegna sindacale, Domenico Carrieri), ne aveva una diversa. Tremila persone in più. Ma stai a guardare il capello?

Fonte: Sergio Rizzo - Il Corriere.it

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