La città dei ghetti
Le città sono nate per dare risposta a due grandi questioni. La spinta verso il progresso economico: i primi aggregati urbani della storia, come noto, nascono nel vicino oriente proprio per permettere l’accumulazione della produzione agricola eccedente ai bisogni della popolazione insediata. Il bisogno di sicurezza verso l’esterno, la necessità di riconoscersi in gruppi che condividono la lingua e la cultura.
Le mura o i recinti delle città rappresentavano fisicamente e simbolicamente il limite tra dentro e fuori, tra sicurezza e insicurezza, tra l’ignoto e il conosciuto. Ma questo artificio di dividere in due la realtà, contrapponendo un interno sicuro per definizione ad un esterno ignoto non è mai stato vero. La storia delle città è stata sempre attraversata da inaudite violenze. Spesso queste violenze provenivano dall’esterno, dall’ignoto, appunto. Ma tante volte erano generate dal cuore stesso della città, dalla lotta di fazioni interne alla ricerca della supremazia e del dominio, dai conflitti religiosi. Nei momenti di crisi le violenze sono state indirizzate verso i diversi o le minoranze. Verso coloro che venivano dipinti come responsabili assoluti dello stato di malessere. Gli esempi sono infiniti. Da Antigone alle streghe, fino alle recenti persecuzioni razziali, sono tanti i modi con cui le città hanno tentato di esorcizzare la paura.
Il sentimento della paura non è dunque nuovo nella città. Quello che viviamo attualmente è soltanto l’ultimo in ordine di tempo. Nonostante i dati numerici ci dicano che i fenomeni di violenza sono più o meno stabili negli ultimi anni, si parla solo della sicurezza e dell’intervento repressivo necessario a riportare ordine. Il senso comune di insicurezza che si sta affermando non è dunque un fenomeno inedito, ma un tema ciclicamente ricorrente. La novità inedita sta nel fatto che i casi di violenza si iscrivono in una fase in cui la città nella forma storica con cui la conoscevamo -e cioè quella rete di relazioni e di luoghi che permetteva di attenuare le conseguenze dell’insicurezza sempre esistente- sta scomparendo. Oggi, insomma, c’è più allarme sociale perché non c’è più la città.
Non erano soltanto le mura a generare sicurezza e senso di appartenenza. L’evoluzione storica delle città ha portato progressivamente alla costruzione dei luoghi dell’identità delle comunità. Da quelli più semplici, come le strade destinate al commercio o le piazze sedi di mercato, a quelli più complessi, come i luoghi dell’esercizio dei poteri pubblici, della cultura o i luoghi in cui si svolgevano i riti del pensiero magico o religioso. Nella città contemporanea questo bisogno di identità sociale è diventato sempre più complesso e articolato: le strutture destinate all’istruzione di massa, le abitazioni pubbliche o i servizi alle persone -da quelli sanitari a quelli sociali- hanno rappresentato negli ultimi secoli i luoghi simbolici e concreti della sicurezza sociale. Sono stati i servizi sociali a fornire un’ancora di salvataggio alle fasce di popolazione più povere. Sono stati gli alloggi popolari a dare una fondamentale base al bisogno di sicurezza dell’abitare.
La fase del liberismo senza regole in cui viviamo sta cancellando con una velocità impressionante questo sistema di equilibrio sociale. Le città sono diventate esclusivo fattore economico, ogni altro elemento di giudizio, da quello simbolico a quello di benessere sociale è scomparso. Un esempio recentissimo si trova nel decreto legge n.112 del governo Berlusconi in vigore dal 25 giugno. L’articolo 58 obbliga i comuni a individuare le proprietà pubbliche da vendere e a redigere specifici progetti di “valorizzazione economica”. I progetti approvati andranno in deroga a tutti gli strumenti urbanistici e alle norme di tutela del paesaggio. Conta soltanto la realizzazione dell’affare economico.
I servizi sociali vengono chiusi uno dopo l’altro perchè non ci sono soldi, fatto incomprensibile per un paese che pure partecipa all’opulento banchetto degli otto paesi più ricchi del pianeta. Il sistema sanitario chiude progressivamente tutte le sedi periferiche che garantivano, quanto meno dal punto di vista psicologico, una sicurezza di assistenza immediata. Le scuole, quando non vengono dismesse per il calo della natalità, versano in uno stato di progressiva fatiscenza fisica e di contenuti: i tagli all’istruzione sono continui e generalmente accettati. Le case pubbliche e degli enti previdenziali sono state vendute alle più potenti società immobiliari, da Pirelli real estate alle altre grandi multinazionali del mattone.
Agli inquilini e ai pensionati non è restato altro che andare ad ingrossare le squallide periferie metropolitane. E tocchiamo così il secondo aspetto della scomparsa delle città. Anche nel periodo seguente alla rivoluzione industriale, quando le mura urbane non avevano più una funzione reale, le città crescevano quasi sempre per contiguità. Nuovi quartieri nascevano a diretto contatto con quelli esistenti e nel loro insieme dialogavano con la città storica. Oggi gran parte della popolazione è stata espulsa dalla città compatta e vive in un informe periferia metropolitana dove non esistono servizi e luoghi di aggregazione sociale e si vive nel più completo isolamento. In cui le opinioni non si formano dialetticamente con gli altri abitanti, ma si ricevono acriticamente dai media.
E così, come spesso succede, coloro che hanno causato questo devastante deserto sociale e cioè gli esponenti del pensiero liberista sostenitore dell’abbattimento di ogni residua funzione pubblica, cavalcano l’onda emotiva. Ed hanno buon gioco, fin'ora, nell’additare i responsabili del clima di paura. Lavavetri, mendicanti e marginali. Immigrati dai paesi poveri e rom. Dopo gli assalti ad alcuni campi sosta, siamo arrivati all’idea criminale di prendere le impronte digitali ai bambini di etnia rom. Sono i responsabili della scomparsa della città che vivono di rendita sulla paura.
Fonte: Eddyburg.it
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