Azoto, un problema sottovalutato
A maggio, nel Golfo del Messico, si è registrata una considerevole moria di organismi marini. Un fenomeno che avviene regolarmente tutte le primavere, qui come in molte zone costiere con scarso ricambio idrico.
L’uso massiccio di fertilizzanti e di combustibili fossili ha immesso nell’ambiente un’enorme quantità di composti reattivi dell’azoto, creando quelle che in gergo vengono definite le dead zone, zone morte. Morte perché non c’è ossigeno.
Due recenti studi pubblicati su Science hanno messo in evidenza l’impatto, le modalità e le conseguenze che le attività umane, come la produzione di cibo e di energia, stanno determinando sul ciclo dell’azoto.
Nella sua forma inerte, l’azoto è uno degli elementi più abbondanti presenti sulla Terra: costituisce il 78 per cento dell’atmosfera. A cominciare dal secolo scorso la produzione massiccia di fertilizzanti a base di azoto e la combustione su larga scala di combustibili fossili hanno fatto sì che un’enorme quantità di composti reattivi dell’azoto, come l’ammoniaca, siano entrati nell’ambiente. L’azoto elementare presente in pesticidi, diserbanti e gas di scarico che finiscono nell’atmosfera può in seguito depositarsi nei laghi e nelle foreste sotto forma di acido nitrico, nocivo sia per la fauna ittica che per gli insetti. In seguito, trasportato verso le coste, può determinare fenomeni di eutrofizzazione: se la disponibilità di questo nutriente aumenta, anche la biomassa che si forma è maggiore. In questo caso la crescita algale può assumere un andamento esplosivo e dare luogo alla formazione di quantità abnormi di materiale vivente la cui presenza – e soprattutto la sua successiva decomposizione – innesca una serie di fenomeni di anossia (mancanza di ossigeno).
Infine l’azoto viene riportato nell’atmosfera in forma di ossido di azoto, che reagendo con l’ossigeno atmosferico si trasforma in biossido di azoto, intermedio di base per la produzione di tutta una serie di inquinanti secondari molto pericolosi come l’ozono, l’acido nitrico, l’acido nitroso. Secondo lo studio firmato dagli scienziati della Texas A&M University e dell’Università dell’East Anglia, circa il 30 per cento dell’azoto che dall’atmosfera passa agli oceani deriva dalle attività umane.
James Galloway, che ha diretto uno dei due studi, sta mettendo a punto un calcolatore per stimare l’impronta ecologica dell’azoto, così come è già stato fatto per la CO2, con l’obiettivo di avere un maggior controllo dell’uso di fertilizzanti in agricoltura e del consumo dei combustibili fossili per la produzione di energia e per il traffico veicolare.
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