Università senza soldi
Con un comma nella finanziaria, Tremonti taglia i fondi per gli atenei. A cui però viene data una nuova possibilità: trasformarsi in fondazioni per farsi finanziare dai privati e dalle banche. Funzionerà? Non era mai successo nella storia della più antica università occidentale.
Mentre contro i tagli e il blocco delle assunzioni c'è rivolta generalizzata nell'accademia italiana, sul modello "fondazioni" qualcuno comincia a fare un pensierino. Guardando, più che all'impresa privata italiana, assai avara nella spesa per la ricerca, soprattutto ai tesoretti depositati in altre fondazioni: quelle bancarie.
Tra le prime a muoversi, ci sono le università più piccole ma dinamiche. Ma non è solo per la possibilità di aggirare alcuni vincoli che i rettori delle piccole università aprono alle fondazioni. "Oltre che di mancanza di fondi, l'università italiana soffre perché non sa gestire bene la sua autonomia e non ha flessibilità di gestione, ad esempio nel reclutamento dei docenti e nella loro valutazione", dice il Rettore di Trento. Ma attenzione: su questo il decreto non dice niente. E poi: "Un modello di gestione privatistico e aperto all'esterno va bene, ma nessuna università può vivere senza la garanzia di un capitale o di un flusso di finanziamenti pubblici". Sul fatto che l'impegno finanziario pubblico non debba scendere concordano tutti, favorevoli e contrari all'apertura alle fondazioni. Mentre nel disegno di Tremonti la premessa è proprio nei tagli: a regime, verranno a mancare al sostentamento delle università 1,2 miliardi di euro all'anno.
Contro questa cura, nella calura delle sessioni estive si sono mobilitate tutte le università italiane, capitanate dalla Crui, la Conferenza dei rettori. Protesta Palermo. Vota una mozione durissima il senato accademico di Firenze. Si ribellano compatte le università del Friuli Venezia Giulia, compresa la prestigiosa Sissa, contro "il disimpegno dello Stato" dall'università. Si riuniscono in plenaria i senati accademici abruzzesi.
Si mobilita La Sapienza di Roma: in un comunicato addirittura paventa che "in queste condizioni non sarà possibile dare inizio al prossimo anno accademico". Una situazione drammatica, che mette a rischio molte delle 77 università italiane e delle loro ben 350 sedi. Alcune si preparano a una mobilitazione a oltranza, e ritengono che, rispetto all'emergenza economica, la leggina sulle fondazioni serva meno di un'aspirina. Altre, prevedendo i tempi magri, hanno messo al lavoro giuristi ed esperti. Tra queste i politecnici, che già sono in prima fila nei buoni rapporti con le imprese private.
In particolare si guarda a finanziamenti regionali per gli investimenti, alle fondazioni bancarie per i finanziamenti cash.
Non è un caso che, a Torino come a Milano come in Emilia Romagna, si guardi alle fondazioni bancarie, che sono tenute per statuto a spendere (anche) in ricerca sul territorio. Mentre dal fronte delle imprese private il piatto piange. Persino nelle isole felici dei politecnici, non è che le imprese brillino: a Torino i contributi dei privati coprono il 20 per cento del budget, non molto di più arriva dalle imprese al Politecnico di Milano, mentre nella media nazionale la quota dei privati è solo dell'8 per cento. "Pensare che correranno a portarci soldi solo perché diventiamo fondazioni, sarebbe da pazzi", commenta Marco Pacetti, rettore dell'Università Politecnica delle Marche, che fa notare come già adesso le università possano cercare e ricevere finanziamenti privati: la norma sulle fondazioni, a suo avviso, è "solo un totem ideologico, messo lì senza curarsi del quadro complessivo.
E poi, siamo seri, non si fa una riforma epocale con un articoletto di un decreto legge". Concorda Patrizio Bianchi, rettore a Ferrara, che sulla questione ha aperto un dibattito pubblico nella sua università: favorevole in linea di principio al modello fondazioni, Bianchi mette però in chiaro che, "così com'è scritta, la legge non va". Soprattutto perché niente garantisce che con le fondazioni cambi davvero il sistema di governo degli atenei. Sul punto, l'economista Roberto Perotti, della Bocconi, è caustico: "Succederà proprio come per le fondazioni bancarie, sarà opportunità di clientela per i notabili locali". Parere opposto a quello di Massimo Egidi, rettore della Luiss secondo il quale "la necessità di aprirsi al mondo esterno, all'impresa e all'economia, proteggerà dal rischio che si formi un board di politici bolliti".
Oltre alle regole su chi comanderà in ateneo, è oscuro anche il "come": in particolare, ci si chiede se i prof saranno reclutabili "all'americana", con contratti di mercato, oppure resteranno i vecchi concorsi. Il presidente della Crui Enrico Decleva chiede precise garanzie "sullo status giuridico dei docenti, oltre che sui flussi finanziari e sulla funzione pubblica delle università, per cui va finanziata anche la ricerca ritenuta economicamente non produttiva". Mentre secondo i fan del modello americano è proprio la liberalizzazione dei contratti dei docenti a fare la differenza: "Se c'è libertà di fare i contratti, di scegliere e premiare i migliori, c'è un cambiamento, altrimenti no", commenta Bruno Dente, economista del Politecnico di Milano. Ma questo dettaglio, non di poco conto, non è scritto nella legge.
Fonte: L'Espresso
0 commenti:
Posta un commento