mercoledì 30 gennaio 2008

La rivoluzione in Parlamento

C'era una vignetta di Vauro l'altro giorno sul manifesto: «Prodi sen'è andato, Berlusconi non è ancora tornato. Godiamoci questo magico momento». È una battuta che rende lo stato d'animo di molti italiani.
Alla vigilia di un altro passaggio di consegne fra il vecchio e il più vecchio. La deludente seconda volta di Prodi, la (probabile) terza volta di Berlusconi, all'insegna dell'eterno ritorno. Ma esiste un modo per sfruttare davvero il "magico momento", addirittura per fare una piccola rivoluzione.
Le rivoluzioni, com'è noto, in Italia sono possibili soltanto nei brevi intervalli fra una restaurazione e l'altra. Con una dose minima di buona volontà la famigerata casta politica può usare le poche settimane che ci separano dalle elezioni anticipate per dimostrare appunto di non essere una casta e rispondere alla profonda domanda di democrazia del Paese. Sia chiaro che non si tratta di un espediente per rinviare di un anno le elezioni. Basterebbe soltanto spostarle a giugno e permettere il costituirsi di un governo istituzionale, di larghe intese, con un mandato preciso, limitato nel tempo e negli obiettivi: questi.
Prima di tutto, una riforma della legge elettorale nota come «porcata», principale responsabile del presente disastro e rinnegata, almeno a parole, dallo stesso centro destra. In modo da limitare, con un sistema o l'altro, purché condiviso dalla maggioranza, il numero dei partiti presenti in Parlamento e il relativo potere di ricatto sulla coalizione vincente.
Secondo obiettivo, la riduzione del numero dei parlamentari dagli attuali mille a seicento, quattrocento alla Camera e duecento al Senato. Si tratta di una proposta sbandierata da quindici anni in tutti i programmi elettorali, di destra e di sinistra. Per una serie di circostanze certo molto sfortunate, nessuno dei governi eletti l'ha poi messa in pratica. Se abbiamo una certezza nella vita, questa è che la riduzione del numero dei parlamentari sarà ancora al centro della prossima e imminente campagna elettorale. Ma dal momento che esiste già una teorica unanimità perché non tradurla in pratica prima e non dopo le elezioni? Sono sufficienti pochi giorni di votazioni.
Il terzo punto, logica conseguenza, riguarda la riduzione del numero dei ministeri a dodici. Prevista dall'ultima Legge finanziaria, ma destinata a finire nella fossa delle Marianne dei buoni propositi, con l'eventuale cambio di maggioranza.
Quarto e ultimo obiettivo, una correzione del cosiddetto bicameralismo «perfetto» per cui Camera e Senato, unico caso nelle democrazie occidentali, risultano doppioni l'una dell'altra.
Su questi quattro semplici obiettivi, davvero una "modesta proposta", esiste nel Paese reale una larghissima intesa di fatto che va dal Presidente della Repubblica al milione di firmatari del referendum, fino al novanta per cento dell'opinione pubblica, stando ai sondaggi.
Un accordo fra i grandi partiti può realizzarli in due o tre mesi di lavoro parlamentare. Sarebbe una rivoluzione vera, fra le tante finte e annunciate che hanno scandito il cammino della seconda Repubblica.
Sarebbe la miglior risposta al montare dell'antipolitica. Vogliamo vederlo poi Beppe Grillo radunare folle oceaniche sulla proposta del "bollino blu" sulle liste o il divieto del terzo mandato, riforme infinitamente meno importanti, radicali e popolari. Infine, è l'unico modo per svelenire in partenza un clima elettorale già gravido in partenza di volgarità, violenza, stupidità e risse da curva calcistica.
La differenza fra accettare o rifiutare questa opportunità di cambiamento si traduce, in termini temporali, in appena due mesi. Si voterebbe a giugno e non ad aprile. Sul piano culturale e politico invece corre un abisso. Un accordo pre-elettorale sulle regole rappresenterebbe un grande segnale di modernità, riformismo, civiltà.
La corsa alle urne in queste condizioni si traduce invece in una conferma del teorema antipolitico della "casta". Nella certezza che in questo Paese, chiunque vinca, non cambierà mai nulla.
Il Partito democratico è favorevole a percorrere la strada, benché in realtà punti a rinviare il voto oltre i tre mesi, fino alla primavera del 2009. Ma non dovrebbe essere difficile convincere Walter Veltroni a limitare la missione al tempo strettamente necessario. A quel punto, quali argomenti seri potrebbero avanzare i partiti del centrodestra? Berlusconi e Forza Italia strombazzano da anni, in pratica dalla discesa in campo del 1993, la ferma volontà di combattere il "professionismo della politica" e di semplificare il sistema di rappresentanza democratica. Ecco un'occasione d'oro, forse irripetibile, per tradurre infatti le chiacchiere da spot. Qui e subito. La Lega campa dagli albori sulla lagna circa "Roma ladrona". È vero che nella favoleggiata Padania il partito di Bossi ha dato vita a un sottogoverno da far invidia ai vecchi democristiani. Come del resto ha quasi ammesso con la difesa a spada tratta del diritto di Mastella e famiglia a nominare primari ospedalieri di partito. Esistono poi i casi clamorosi, se lo scandalo fosse ancora di moda in politica, di Gianfranco Fini e PierFerdinando Casini. Il leader di An è stato fra i promotori più entusiasti di un referendum che oggi vuole già buttare alle ortiche, nell'urgenza imposta dalla voce del padrone. Il capo dell'Udc è tornato all'ovile dopo aver sollevato la questione della legge elettorale per primo, ai tempi in cui faceva parte del governo di centrodestra. Per entrambi vale oggi la celebre alternativa di Totò: uomini o caporali?

Fonte: La Repubblica - Curzio Maltese

2 commenti:

GAMoN ha detto...

Come al solito devo dissentire su diversi punti. :-)
Cominciamo dal primo: non è vero che la legge elettorale è la principale causa di questo "disastro". Certo, si può migliorare di molto o addirittura cambiare del tutto sistema elettorale. Ma il disastro è stato determinato dalla combinazione di 2 fattori:
1) un equilibrio mai visto prima in Italia fra le due coalizioni (un sostanziale pareggio)
2) l'eterogeneità del sistema dei valori della sinistra che ha (formalmente) vinto le elezioni.
In queste condiioni, in un paese normale (per dirla alla D'Alema), si cercherebbe di formare un governo più ampio, coinvolgendo una fetta di opposizione, per portare a termine congiuntamente almeno quelle riforme che da tempo i cittadini attendono e che invece si è tentato di fare, disfare e rifare a colpi di maggioranza.
Ma Prodi si è fatto infervorare troppo dalla campagna elettorale, troppo aspra, e ha deciso di correre sempre ed esclusivamente da solo, escludendo (ed estromettendo) l'opposizione da qualsiasi coinvolgimento funzionale e istituzionale, a tutti i livelli.
Non che Berlusconi nella precedente legislatura avesse agito diversamente, ma almeno i numeri glielo permettevano.
Farlo in condizioni di quasi parità numerica mi sembra pretenzioso già per una maggioranza molto coesa, figuriamoci per una coalizione molto frammentata.

Dunque, dopo meno di mezza legislatura (ma molto più di quanto molti si aspettassero, me compreso), il governo cade. E dalla sinistra moderata si invoca un governo di transizione per riscrivere almeno la legge elettorale.
Anch'io sono convinto che sarebbe una buona cosa.
Ma guardando le cose da una prospettiva diversa, quella di chi si considerava vincitore morale delle scorse elezioni (il centrodestra è finito in minoranza in parlamento pur avendo ottenuto più voti del centrosinistra) ma è stato estromesso con arroganza da qualsiasi coinvolgimento, questa rappresenta una straordinaria occasione di rivincita.
Da sinistra (e anche da autorevoli rappresentati di categorie) viene detto che è "necessario" modificare la legge elettorale per non ritrovarsi di nuovo nel "disastro".
Beh... su questo non sono d'accordo.
Se il centrodestra riuscisse a mantenere anche solo la metà del vantaggio che ha accumulato rispetto al centrosinistra (crollato nei sondaggi) avrebbe i numeri per governare agevolmente per tutta la legislatura.
Certo, le divergenze ci sono anche nel centrodestra, ma l'esperienza ha dimostrato che non sono incolmabili è possibile governare un'intera legislatura.
Probabilmente non rappresenta una novità: stesse formazioni politiche, stesse facce... ma di sicuro non difetta per stabilità.
Quindi il ragionamento politico del centrodestra è il seguente:
1) il centrosinistra ha un gap di circa 11 punti rispetto al centrodestra
2) fare la legge elettorale adesso significherebbe dargli la possibilità di prendersi parte del merito e quindi di far risalire le quotazioni del PD (escludo la sinistra arcobaleno che tanto non parteciperebbe)
3) è possibile modificare la legge elettorale stando al governo, anziché in condizioni di parità o di subalternità. oppure aspettare il referendum.

Questa è la situazione. E non esiste formazione politica, in qualsiasi parte del mondo, che faccia gli interessi degli altri a scapito dei propri.
La logica conseguenza è che presto si andrà a elezioni anticipate.

Mi sono già dilungato troppo. Voglio solo aggiungere che se già è un'impresa riscrivere la legge elettorale in 2 mesi, quando non esiste una bozza di proposta comune che riscuota un consenso sufficiente,figuriamovi una riforma costituzionale. Altro che governo temporaneo!
Berlusconi, in 4 anni ci aveva provato (la riforma non era neanche male), ma il suo disegno di legge è caduto al referendum.

Ciao.

Unknown ha detto...

Ti rispondo con delle domande:
Con la frammentazione esistente nell'Unione sei proprio sicuro che un allargamento all'opposizione avrebbe migliorato la situazione? E poi su quali riforme avrebbero potuto trovare un accordo condiviso?
Perchè dici che la sinistra arcobaleno non sia interessata alla riforma elettorale? MI pare che al contrario siano loro a spingere per un governo a tempo determinato solo per quello, al contrario del Pd che vorrebbe farlo durare almeno un anno.

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