lunedì 25 febbraio 2008

Avanti col biodiesel?

Ormai non si riesce più a ragionare razionalmente sulla vicenda del biodiesel. La spinta a cercare alternative alle fonti di energia tradizionali è talmente forte e i media la promuovono e sponsorizzano così tanto che anche in questo caso la ridondanza delle comunicazioni va al di là di una valutazione serena e strategica del caso per caso. Non poteva mancare ovviamente in questa nuova rincorsa energetica l’Africa, valutata dall’esterno e, come spesso accade, subita dall’interno, salvo rare e meritevoli eccezioni.
La linea interpretativa corrente dice che in Africa, contrariamente a ciò che avviene in Asia e America Latina, le piantagioni di varie specie di colture oleaginose, al fine di ottenere biodiesel a costi competitivi, non alterano le potenzialità agricole destinate alla sicurezza alimentare e alle produzioni tradizionali. Questo sulla base del fatto che le terre coltivate in Africa sono molto poche e che quindi quelle di mais o di jatropha, girasole o altro saranno effettuate su terreni incolti, marginali, non sfruttati, abbandonati.
Già questo ragionamento presenta non poche contraddizioni sulle stime, le localizzazioni, gli usi alternativi, la redditività e l’usabilità dei terreni in questione, ma la mancanza di una seria comparazione tra presente e futuro non chiaramente delineabile potrebbe far aumentare i rischi di questa nuova avventura per le popolazioni più bisognose, in termini di autosufficienza e autonomia.
Vediamo quindi un caso molto significativo: il Mali, che si avvia a diventare il primo produttore africano di biodiesel. Il primo dato di valutazione è che questo paese sta via via riducendo la produzione di cotone e i tentativi di introdurre colture alternative (mango, arachidi, sesamo) non hanno avuto il successo sperato, il che sta spingendo i coltivatori in una situazione estremamente critica. Inoltre il paese, come molti altri in Africa, anche a causa del rialzo del prezzo del petrolio, sta attraversando una crisi energetica strutturale che blocca qualsiasi dinamica di sviluppo e impedisce l’indispensabile redditività a breve termine. Due costanti da invertire pena il collasso e l’impossibilità di indispensabili investimenti nelle infrastrutture.
Da qui la nascita del progetto Olio di jatropha, finanziato da privati con 120 milioni di euro e appoggiato dalla FAO e dalla AgroED(Agro Energie-Développemment), che prevede la coltivazione di 500.000 ettari di jatropha nei prossimi dieci anni per diminuire la dipendenza dalle fonti energetiche petrolifere (si stima dal 15 al 20 per cento). Inoltre la filiera completa prevede anche le fasi di triturazione e di transesterificazione con impiego di mano d’opera locale.
La pianta, robusta e a rapida crescita, ha una vita media di 40 anni ed è molto resistente alle malattie oltre a essere autoctona (in dialetto bambara si chiama bagani, “veleno”, a causa del suo odore nauseabondo e della sua tossicità) e ha un rendimento dal 30 al 35 per cento di olio rispetto al peso dei semi. Va detto che, secondo uno studio, se il tre per cento delle terre africane fosse coltivato a jatropha, se ne potrebbe ricavare un reddito di decine di miliardi di euro... Ma la minaccia viene dal sud perché l’India si appresta a piantare 40 milioni di ettari della stessa pianta! Chi ha presentato il progetto sostiene che la coltivazione di questo agro-carburante sarebbe uno dei rari casi nei quali non si farebbe concorrenza alle colture alimentari di base poiché «nella fase di piantagione della jatropha ci dobbiamo servire anche di quelle che vengono chiamate colture intermedie.
In effetti l’obiettivo, data l’estensione territoriale, è quello di prevedere colture integrative alimentari adattabili alla stessa geomorfologia, come girasole, sorgo, cereali e altre colture orticole». Per ripagare in tempi rapidi gli investitori si prevede anche di utilizzare nell’immediato un biocarburante a base di semi di cotone ma, a fronte di una capacità di trasformazione pari a circa un milione di tonnellate, il Mali, nel migliore dei casi, ne produrrà, quest’anno, non più di 200.000. Sin qui le proiezioni e le previsioni di questo ambizioso programma che però lascia adito ad alcune perplessità strutturali, a meno che le informazioni fatte circolare non siano volutamente carenti di dati.
In primo luogo non è chiaro il rapporto tra sicurezza alimentare e impegno a fini energetici di una superficie coltivabile così estesa, tenuto anche conto del fatto che in 20 anni la popolazione crescerà notevolmente. Inoltre non si parla di impatto ambientale, degrado dei suoli, incidenza reale sui consumi di combustibile, impatto culturale di una monocoltura non tradizionale, i margini di profitto e la redistribuzione a favore dello sviluppo ecc.
Insomma l’ambizione legittima del Mali a dotarsi di risorse energetiche autonome sembra fortemente condizionata dalle pressioni esterne e non è chiaro quali saranno esattamente i benefici strutturali che le popolazioni avranno nel medio periodo. Resta il fatto che uno sforzo pianificatorio di questa entità cambierà in qualche misura il paese e che non resterà senza imitatori, magari con ancor meno capacità gestionali e finanziarie. Un esempio quindi da seguire da vicino per i suoi effetti locali e internazionali.

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