Medicine e terapie complementari
Alla fine di ottobre a Terni, in un’aula del Policlinico universitario gremita da centinaia di persone convenute per una giornata di studio sulla Psiconeuroendocrinoimmunologia, ho condotto la tavola rotonda conclusiva con dirigenti del Servizio sanitario, presidenti delle Associazioni professionali (medici, infermieri, psicologi, biologi), rappresentanti della Facoltà di Medicina. Il discorso è inevitabilmente caduto sulle medicine complementari e sul paradosso che sono più di quindici anni che se ne parla in sede parlamentare senza concludere un fico secco. Ho chiesto: «Se le Facoltà di Medicina istituiscono corsi di agopuntura, di omeopatia e di fitoterapia, se le Regioni istituiscono servizi di medicina integrata, se l’Ordine dei medici e le altre associazioni sono d’accordo nel regolamentare la materia, perché non si fa una legge? Insomma chi è l’assassino?».
Mi è stato risposto che i contrari sono i soliti: alcuni nomi noti soprattutto nel campo della farmacologia, cioè nel campo della concorrenza.
Alla fine di novembre, i giornali hanno poi titolato «Nuovo attacco all’omeopatia» da parte della rivista medica the Lancet e della Società Italiana di Farmacologia (sempre loro!).
Leggendo il Corriere della Sera, che riportava la notizia, ho pensato che su Lancet fosse stato pubblicato un nuovo studio sull’omeopatia. In realtà, sul numero del 17 novembre, ha pubblicato non una meta-analisi o uno studio clinico controllato, ma un servizio giornalistico che ha fatto il punto sulla guerra in atto da parte di società di chirurghi e di farmacologi contro l’omeopatia, al fine di ridurre i fondi che lo stato stanzia ogni anno per i cinque ospedali omeopatici pubblici, che l’anno scorso hanno ricoverato 13.000 cittadini di sua maestà britannica.
L’omeopatia in Inghilterra, infatti, fa parte del servizio sanitario nazionale dalla sua costituzione e cioè dal 1948 e viene insegnata nella Facoltà di Medicina omeopatica. Ma c’è di più: l’anno scorso sei università britanniche hanno istituito corsi di laurea in omeopatia (Bachelor of Science Degree in Homeopathy). È evidente che gli interessi economici in gioco sono rilevanti: il mercato inglese dei rimedi omeopatici oggi vale 38 milioni di sterline che nel 2012 arriveranno a 46. Ma, se si allarga lo sguardo al mondo, le cifre sono e diventeranno da capogiro. Basti pensare al fatto che l’India, potenza economica emergente, ha l’omeopatia nel suo sistema sanitario nazionale con 250.000 medici omeopati e 11.000 ospedali. Omeopatia che il ministero per la Salute indiano integra con l’Ayurveda, lo yoga, la naturopatia e, naturalmente, la medicina occidentale.
Venendo a casa nostra, il documento della Società Italiana di Farmacologia è stato sollecitato dalla presa di posizione del sottosegretario alla Sanità, Giampaolo Patta, che, in occasione della manifestazione dei Verdi a Roma lo scorso ottobre “È l’ora della legge!”, si è pubblicamente impegnato a mettere in campo il governo al fine di dare una svolta all’annosa questione. Di qui la fretta dei nostri farmacologi a manifestare la loro opinione che, prevedibilmente, è complessivamente negativa, anche se è davvero leggerina sul piano argomentativo. In sintesi, la linea dei farmacologi può essere così riassunta: l’omeopatia assolutamente no (perché, dicono, non ci sono evidenze; facendo di tutte l’erbe un fascio, dimenticando che abbiamo usato e usiamo farmaci con scarsissime evidenze e non per questo bandiamo la farmacologia dalla sanità!); l’agopuntura sì, ma con molte, molte cautele (perché, dicono, sull’infiammazione non va molto bene… invece un bell’Aulin è tutta salute!); la fitoterapia sì, ma dopo che si sarà attuata la direttiva europea che prevede la registrazione dei farmaci vegetali.
Insomma, dopo che anche sulle piante le aziende farmaceutiche potranno mettere i loro brevetti e prendersi le loro royalties. E questa la chiamano scienza.
Francesco Bottaccioli
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