giovedì 28 febbraio 2008

Piantare, ma non mangiare - 1

Dal tessile al tintorio, dal tabacchiero al florovivaistico, i settori di impiego delle colture no food sono davvero i più disparati. Indumenti, carta, coloranti naturali, farmaci. E ancora: cosmetici, tabacco, fiori, ma anche plastica e carburanti per le automobili. Le applicazioni di materie prime di origine vegetale sono sempre più numerose. E sempre di più sono le specie di piante che vengono sfruttate per l’agricoltura industriale: si riesce a ottenere fibra dalla ginestra e dall’ortica, plastica dalle bucce di patate, lubrificanti dai cavolini di Bruxelles.
Nel corso dei secoli l’agricoltura no food ha avuto un ruolo di spicco nel nostro paese. Il caso della canapa è esemplare: fu usata per le vele che sospinsero Colombo verso le Americhe, per le pagine della Bibbia di Gutenberg, per tessere le tele usate dai grandi pittori, da Leonardo a Picasso; i primi jeans erano fatti in canapa, il signor Diesel la sfruttò per fabbricare il primo carburante che alimentò l’omonimo motore. Fino al 1900 era la pianta più usata dall’uomo, e non per scopi alimentari. Con il passare dei secoli si sono affacciate nuove tecnologie, nuove sfide e nuove riforme che hanno rivoluzionato anche il mondo dell’agricoltura non alimentare. Alcune piante sono sparite dai nostri campi per fare spazio ad altre, apprezzate per la loro versatilità. Non solo. L’inquinamento, il problema dello smaltimento dei rifiuti, i cambiamenti climatici e il riscaldamento globale hanno aperto la strada a carburanti, gas e plastiche di natura vegetale. Ma qual è oggi il ruolo dell’agricoltura no food in Italia?
La superficie agricola coltivabile in Italia ammonta a circa 13 milioni di ettari. Quella destinata a colture esclusivamente non alimentari è una parte molto contenuta, di scarsa rilevanza. Secondo i calcoli, non supera il milione di ettari. Ma cosa vi si coltivi è difficile stabilirlo con precisione. Già, perché procurarsi dati precisi, completi e soprattutto aggiornati è un’impresa quasi impossibile. Pur sempre di agricoltura si tratta, ma lo stesso ministero delle Politiche agricole e forestali non possiede cifre ufficiali, come anche le associazioni di categoria, gli istituti di ricerca e le agenzie regionali e nazionali del settore agricolo: nessuno degli attori conosce la superficie agricola interessata da colture dedicate unicamente al no food, né è in grado di dare un elenco completo delle varietà interessate.
Secondo Coldiretti durante la campagna agraria 2006/2007 sono stati coltivati 65.000 ettari tra girasole (50.000) e colza (15.000), secondo l’associazione di categoria Assobiodisel solo 40.000. Un’inezia, se si considera che per soddisfare gli obiettivi fissati dalla Finanziaria 2007 l’Italia avrebbe dovuto mettere a coltura 273.000 ettari di oleaginose a fini energetici. E che per rispettare le normative comunitarie questa superficie avrebbe dovuto essere ampliata entro scadenze ben precise. Le stime approssimative e il clamoroso ritardo nel mettersi al passo con la politica comunitaria dimostrano l’arretratezza dell’Italia nello sviluppo di energie alternative provenienti dalle coltivazioni agricole nazionali, come sottolineato di recente anche da Legambiente.
A queste cifre vanno aggiunti i 1.000 ettari coltivati a canapa (dati forniti dal Consorzio canapa Italia), qualche migliaio di ettari dedicati alle piante officinali per cosmesi, farmaci, essenze (fonte FIPPO, Federazione Italiana Produttori Piante Officinali), circa 5.000 impiegati al 99 per cento per pioppo a uso energetico (AIEL, Associazione Italiana Energia dal Legno), circa 30.000 per le piantagioni di tabacco (dati APTI).
Anche così, però, il quadro rimane lacunoso. Mancano del tutto, infatti, informazioni sulle materie prime dalle quali si ricavano bioplastiche e biogas, perché spesso vengono usati prodotti misti come il mais, destinati anche all’alimentazione. E notizie sulla florovivaistica, una coltura così importante che da sola in Italia rappresenta il cinque per cento dell’intera produzione agricola nazionale. Se i nostri terreni non ospitano lino, cotone e piante per coloranti naturali, sono in fase di sperimentazione campi di ginestra e ortica per ottenere fibre da tessere, di brassicacee per lubrificanti naturali, miscanto, olmo, robinia e platano per uso energetico.
«Non si conosce neppure l’estensione dei terreni che, dopo la riforma OCM (Organizzazioni Comuni di Mercato che disciplinano la produzione e gli scambi dei prodotti agricoli di tutti gli stati membri dell’UE) del 2005 sullo zucchero, sono stati spostati dalla coltivazione della barbabietola a quella delle colture energetiche – aggiunge Fabrizio De Pascale della UILA, Unione Italiana Lavoratori Agroalimentari –; una trasformazione che ha interessato molti ettari, soprattutto nella zona dell’Emilia–Romagna, e che ha imposto all’Europa di dimezzare la sua produzione di zucchero. Il risultato è che 14 dei 19 zuccherifici italiani hanno chiuso, e molti produttori di barbabietola sono passati ad altre colture, anche energetiche». E dire che, secondo gli addetti ai lavori, la scelta in catalogo di materiali alternativi di natura vegetale è sempre più ampia in Italia. «È vero: l’offerta sul mercato di prodotti di origine vegetale sta aumentando – precisa Luca Lazzeri dell’ISCI, Istituto Sperimentale per le Colture Industriali –. Molto spesso, però, si tratta di merce prodotta in Italia partendo da materie prime importate dall’estero. Nel nostro paese stiamo vivendo una fase di sperimentazione, soprattutto per quanto riguarda il settore energetico: le poche filiere esistenti rappresentano praticamente le prime esperienze applicative».
La scarsità di dati non consente di fare valutazioni sull’impatto ambientale delle colture no food. «Purtroppo non esiste in Italia uno studio sulle conseguenze di questo tipo di agricoltura – commenta Fabio Roggiolani, presidente della Commissione Sanità della Regione Toscana ed ex presidente della Seconda Commissione Agricoltura Toscana –. Però conosciamo le esigenze generali di alcune piante. Prendiamo il cotone. A livello mondiale è stato il peggior disastro ambientale del Novecento. Basti pensare al Lago d’Aral (situato alla frontiera tra l’Uzbekistan e il Kazakistan); sparito dalle cartine geografiche perché prosciugato dalle piantagioni di cotone che soppiantarono, nell’immediato dopoguerra, quelle di canapa. La zona è anche inquinata dalle tonnellate di pesticidi usate. Anche il lino non può essere considerata una pianta ecocompatibile: impiegata soprattutto nel tessile, richiede pesanti trattamenti con anticrittogamici e una gran quantità di acqua, essendo tipica dei climi umidi».
«Ma anche nel settore energetico la situazione non migliora – aggiunge Francesco Meneguzzo, tecnico della Commissione Biomasse del ministero delle Politiche agricole –. Le colture dedicate richiedono molta più energia per essere prodotte di quella che restituiscono: un fattore che non si può trascurare nell’analisi del loro impatto».

Fonte: Modus Vivendi

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