Diritti civili
Riporto una articolo a firma di Mikhail Gorbaciov pubblicata su Repubblica che analizza il rapporto tra diritti civili e modello liberista.
Quest’anno cade il sessantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, a cui ho dedicato il mio discorso all’assemblea annuale del World Political Forum. Nel pieno di una crisi che colpisce tutto il mondo è una data che di per sé ci costringe a ricordare questo punto di riferimento dello sviluppo dell’umanità. Ma ricordare non basta. Oggi dobbiamo discutere di come avvicinarci agli obiettivi esposti in quel documento, nel contesto delle sfide del nuovo millennio e degli elementi che hanno prodotto la crisi in cui versa la politica mondiale.
Credo che gli autori della Dichiarazione Universale si rendessero ben conto che grande è la distanza tra i principi enunciati e la loro realizzazione. Un forte contributo è stato dato dai movimenti che si sono battuti per i diritti civili, contro la discriminazione razziale e i regimi totalitari. E dai loro leader morali, Martin Luther King, Nelson Mandela, Andrej Sakharov.
Ma nel mondo diviso dagli scontri ideologici e dalla guerra fredda gli ideali dei diritti umani venivano sempre messi in secondo piano e travisati. I cambiamenti avvenuti nel nostro Paese, in Europa e nel mondo nella seconda metà degli anni Ottanta ci hanno dato una chance irripetibile: quella di mettere in archivio la guerra fredda e lo scontro, anche in materia di diritti umani. Abbiamo avuto una reale possibilità di farlo, di ridurre tutti i tipi di armi e spostare le risorse per la soluzione di problemi come la povertà, il ritardo, il degrado ecologico.
Uscendo dalla guerra fredda si comprese che non esistono diritti umani in un mondo dove miliardi di persone vivono con un dollaro al giorno, senza accesso all’acqua pulita, all’istruzione e all’assistenza medica. Che essi non possono farsi spazio in un mondo condannato a infiniti conflitti e alla corsa agli armamenti. In certo senso, siamo tornati a Franklin Roosevelt, che dichiarò fondamentali non solo la libertà di parola e di professione religiosa, ma anche la libertà dal bisogno e dalla paura.
Noi abbiamo avuto la possibilità di procedere insieme in questa direzione. Ma bisognava davvero passare dallo scontro alla cooperazione, cancellare le vecchie linee di separazione senza crearne di nuove. Insomma, passare a una nuova politica mondiale. Sappiamo che così non è stato.
La globalizzazione, che avrebbe potuto avvicinare miliardi di persone, ha seguito un altro scenario. I politici non sono stati all’altezza. Così cresce il divario tra ricchi e poveri, la crisi ecologica, il terrorismo e il fallimento della politica, fino alle guerre.
È giunto il momento di parlare anche del rischio di militarizzazione della politica e del pensiero, incompatibile con i diritti dell’uomo. Intanto perché il primo diritto è quello alla vita, e militarizzazione vuol dire morte. Ma anche perché l’uso della forza come soluzione universale dei problemi, come mezzo di democratizzazione e stimolo alla crescita è un’assurdità contro il buon senso e contro l’intera esperienza dell’umanità.
Credo che il vicolo cieco in cui si trova la politica si farà ancor più sentire con la crisi, iniziata come crisi finanziaria, ma che diventerà politica nei vari Paesi e nel mondo. Essa conferma l’interdipendenza dei processi mondiali, in questo caso un’«interdipendenza col segno meno». E le cause vanno ricercate soprattutto nella politica, intimamente legata negli ultimi quindici-vent’anni al modello dell’ultraliberismo, di cui ora capiamo tutta l’inconsistenza e l’amoralità. Un modello che ignora gli imperativi della solidarietà umana, ma anche gli interessi e le necessità della società. Parte indissolubile di quel modello è l’antidemocraticità del sistema economico globale, visto che le decisioni prese in un centro di potere hanno conseguenze fatali per tutti.
Si può già prevedere che la crisi colpirà duramente i diritti di centinaia di milioni di persone, soprattutto se, nel tentativo di uscirne, si continuerà a salvare prima i pilastri del sistema finanziario e poi la gente, capitalismo spietato per la maggioranza e "socialismo", aiuto dello Stato, per i ricchi.
Siamo alla nascita di un nuovo sistema economico finanziario sostenuto da un grande gruppo di Stati, non solo quelli del «miliardo d’oro», ma anche altri (Cina, India, Brasile, Sudafrica e Messico). Quali principi verranno messi alla base di questo sistema è un fatto fondamentale, anche dal punto di vista dei diritti umani. Credo che l’esito finale dipenderà da quanto democratica sarà la fase iniziale, se saprà tener conto degli interessi della comunità internazionale. Se avrà, o meno, un fulcro etico, morale.
A suo tempo io posi il problema del rapporto tra politica e morale. Durante la perestrojka cercai di agire partendo dall’assunto che esse sono compatibili e una buona politica non può prescindere dall’etica. Per questo, nonostante tutti gli errori, siamo riusciti a tirare fuori il nostro Paese da un sistema totalitario, per la prima volta nella storia della Russia senza enormi spargimenti di sangue, portando avanti quel processo fino al punto in cui non era più possibile rigettarlo indietro. Ora è il momento di affrontare il nodo del rapporto tra economia e morale. Sappiamo che l’attività economica deve produrre profitto, altrimenti scompare. Ma il motto «l’unico dovere di un uomo d’affari è produrre profitto» confina con un altro motto: «profitto a qualsiasi prezzo». E allora non c’è più spazio per nessun diritto, per l’etica più elementare.
Questo ci porta a riflettere su una nuova architettura politica mondiale. È la grande sfida che abbiamo davanti: inserire il fattore umano e della morale per garantire all’umanità un’esistenza degna nel prossimo futuro. È questa la sfida che per la nuova generazione dei politici.
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